Ho ricevuto in regalo un “buono acquisto” (gift card) in un negozio, che aveva scadenza di 1 anno. Purtroppo sono andato al negozio dopo la scadenza ed il cassiere si è rifiutato di farmi utilizzare la gift card perché scaduta. Ora la mia domanda è se è giusto che il negozio abbia ricevuto comunque dei soldi senza dare alcuna merce in cambio. Può rifiutarsi di cambiare il buono?

Il nodo principale risiede nel qualificare giuridicamente la pratica commerciale del “buono d’acquisto” o della “gift card” per verificare la regolarità o meno della loro “scadenza”.

Sono 2 le soluzioni interpretative a cui possiamo giungere:

  1. Considerare il buono acquisto semplicemente un mezzo di pagamento equipollente al denaro. In questa ipotesi il buono di acquisto non è un “bene” nel senso più classico del termine, ma l’adempimento anticipato della prestazione spettante all’acquirente (pagamento del prezzo), in cambio della controprestazione spettante al venditore che avverrà in futuro (consegna del bene o prestazione del servizio, secondo lo schema classico del contratto di vendita (artt. 1470 e ss.). Nel rispetto del principio della libertà contrattuale, ben possono le parti accordarsi per fissare un termine entro cui la prestazione del venditore dovrà essere eseguita e quindi fissare quella che è comunemente definita “la scadenza del buono”.

Potremmo paragonare il buono acquisto ad un titolo al portatore equipollente al denaro, infatti il loro funzionamento è identico ai titoli al portatore (ex art. 2020 c.c.), utilizzabili come strumenti di pagamento.

I buoni d’acquisto sono quindi degli strumenti di pagamento come il denaro ed esattamente come la moneta, non possono scadere nel vero senso della parola. Può però spirare il termine fissato dalle parti entro cui il venditore avrebbe dovuto eseguire la sua prestazione, divenuta però impossibile, in quanto il compratore non si è presentato nei tempestivamente per riceverla.

A questo punto il venditore è liberato dall’esecuzione della propria prestazione, ma deve rimborsare la controparte del denaro ricevuto in forza dell’art. 1463 c.c. che recita: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito”.

Rifiutarsi di eseguire comunque la propria prestazione e/o di restituire il denaro ricevuto configurerebbe in sede civile un arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. “Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”.

Ma tale condotta potrebbe avere anche delle conseguenze in sede penale, potendosi configurare il reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. “Chiunque, per procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a lire diecimila”.

  • Considerare il “buono d’acquisto” come un contratto (generalmente a favore di terzi) fra il venditore professionista ed il consumatore avente ad oggetto la vendita di beni presenti nel negozio, da individuarsi in un momento successivo, dietro il pagamento di un prezzo versato anticipatamente. In questo contratto possono esservi clausole di ogni tipo, nel rispetto della disciplina del Decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, “codice del consumo”.

In questo caso, l’apposizione del termine entro cui la prestazione del venditore dovrà essere eseguita e quindi entro cui il consumatore dovrà recarsi in negozio per rendere possibile la sua esecuzione, dovrà superare il vaglio della vessatorietà della clausola per essere valida.

Nella pratica comune, solitamente, la “gift card”, si presenta come un contratto per adesione, dove tutti i termini e le condizioni sono predisposti dal venditore, non sono oggetto di trattativa individuale ed il consumatore può solo aderire, ivi compreso “la scadenza del buono” che sovente è già prestampata sul documento da esibire per la riscossione del credito. Quando la clausola della “scadenza” fissa un termine di parecchio inferiore alla prescrizione ordinaria di un credito di origine contrattuale (10 anni) ed il contratto che la contiene è appunto di tipo adesivo, detta clausola è da considerarsi vessatoria ai sensi degli artt. 33 e 34 del codice del consumo. È appena il caso di ricordare che si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

Vi è di più. Se consideriamo la scadenza come un termine apposto entro il quale al consumatore è imposto un onere “di fare” per poter soddisfare il proprio credito ed in assenza del quale si attribuisce al venditore la facoltà di recedere dal contratto, la vessatorietà è anche presunta ex art. 33 comma lett. G del codice del consumo: “Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di: ….. g) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto”. Le clausole vessatorie si considerano come non apposte e quindi il consumatore avrà 10 anni per esigere il proprio credito.

In ogni caso, seppure (per assurdo) non dovessimo considerare vessatoria la clausola della scadenza, esercitare il diritto di recesso non esonera il venditore dall’obbligo della restituzione della somma ricevuta in esecuzione del contratto senza aver eseguito la propria prestazione.

Sempre se non dovessimo considerare vessatoria la scadenza anticipata del buono ed intenderla come clausola risolutiva espressa (e non come condizione per il diritto di recesso), allora allo scadere del termine il contratto si intende risolto, ma anche in questo caso il venditore ha l’obbligo di restituire quanto ricevuto dal compratore, ai sensi dell’art 1493 del codice civile laddove afferma che “In caso di risoluzione del contratto il venditore deve restituire il prezzo e rimborsare al compratore le spese e i pagamenti legittimamente fatti per la vendita. Il compratore deve restituire la cosa, se questa non è perita in conseguenza dei vizi

Le conseguenze della mancata esecuzione della propria prestazione e/o di restituire il denaro ricevuto sono le stesse riassunte nel punto 1). Avv. Domenico Casoria

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